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Cos’è rimasto del populismo di sinistra?

Cos’è rimasto del populismo di sinistra?

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di Samuele Mazzolini 

 

Esattamente dieci anni fa, in occasione delle elezioni europee, fece la comparsa in Spagna un nuovo partito fondato solo pochi mesi prima nel quartiere madrileno di Lavapíes. L’exploit, per una formazione appena nata e composta quasi esclusivamente da giovani accademici precari, fu enorme: Podemos ­ottenne alla sua prima tornata elettorale poco meno dell’8% dei voti e 5 europarlamentari. La strategia adottata per fare irruzione sullo scacchiere politico era dichiaratamente votata al populismo di sinistra, e si ispirava, a detta dei suoi stessi fondatori, al lascito filosofico del teorico argentino Ernesto Laclau. Facendo leva sull’effervescenza popolare suscitata dalle proteste dagli indignados pochi anni prima, Podemos si distinse per l’adozione di una retorica altamente polarizzante: da una parte l’élite, ribattezzata la “casta”, e dall’altra il popolo, di cui Podemos si presentava come portabandiera, colpito dalla crisi socio-economica e vittima del malgoverno tanto di centrodestra quanto di centrosinistra. A differenza della sinistra radicale, Podemos adottò una grammatica politica diversa, facendo propri elementi del senso comune e richiamandosi persino al patriottismo, mentre d’altro canto venivano tralasciati simboli e consegne più tradizionali, considerate ghettizzanti e di scarso richiamo.

Podemos divenne così l’archetipo del populismo di sinistra in Europa. Tuttavia, il suo caso non era il primo nel continente, dal momento che anche l’evoluzione politica di SYRIZA in Grecia, che la condusse al governo del paese, è stata letta da diversi studiosi attraverso il prisma del populismo, sebbene il termine non venne mai esplicitamente rivendicato da parte dei suoi leader. Altre formazioni hanno in seguito fatto ricorso allo strumentario del populismo di sinistra, pur con diverse gradazioni. Tra queste vanno ricordate La France Insoumise Oltralpe, il Labour sotto la guida di Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, Die Linke in Germania, Levica in Slovenia e il Partito Socialista olandese. L’adozione di una strategia populista è stata, negli stessi anni, fonte di dibattiti, non di rado anche aspri, all’interno del mondo della sinistra. Da una parte, i fautori di questo approccio hanno sottolineato che il populismo permette di connettersi più facilmente con quel ceto medio-basso impoverito dalla crisi e dai processi della globalizzazione, ma ormai estraneo a una concezione novecentesca della politica. D’altro canto, i suoi critici hanno spesso puntato il dito contro l’abbandono da parte del populismo di sinistra del tema della classe, così come contro l’insistenza su un registro tutto mediatico schiacciato sulla figura del leader, capace sì di generare un consenso iniziale, ma alla larga effimero e inefficace.

È bene ricordare che il populismo di sinistra in Europa è stato fortemente debitore delle esperienze latinoamericane. La cosiddetta “marea rosa”, ossia la virata a sinistra iniziata sul finir del secolo scorso che coinvolse diversi paesi dell’America Latina, fu un fenomeno eterogeneo comprendente partiti politicamente molto diversi tra loro, ma il suo asse portante fu senza dubbio rappresentato dagli esecutivi populisti di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Argentina e, pur con alcuni distinguo, Brasile. A differenza dell’Europa, qui il populismo di sinistra, a sua volta erede di una lunga tradizione sebbene mai declinata in termini così esplicitamente progressisti, instaurò un vero e proprio ciclo. Consecutivamente vittorioso sul piano elettorale per quasi tre lustri, il populismo di sinistra latinoamericano è stato più volte celebrato per aver varato politiche pubbliche di carattere redistributivo che hanno messo un freno agli eccessi del neoliberalismo dei decenni precedenti. Di contro, è stato spesso accusato di autoritarismo, di un’eccessiva dipendenza nei confronti dei propri leader, così come di una gestione macroeconomica poco oculata, seppur non uniformemente.

Ad ogni buon conto, entrambi i percorsi, sia quello europeo che quello latinoamericano, sono giunti ormai da qualche anno a un vicolo cieco. In Europa, il populismo di sinistra, dopo la vitalità espressa agli esordi, non sembra essere stato in grado di risolvere le impasse che gravano ormai da molto tempo sulla sinistra, fallendo quindi nel tentativo di rispondere al problema della dispersione nei particolarismi e alla difficoltà di creazione di una volontà popolare abbastanza forte da incidere sul piano storico. I diversi percorsi riconducibili al populismo di sinistra si sono fiaccati o smarriti, mentre il populismo di destra continua a macinare successi. In America Latina, la situazione si presenta più frastagliata, ma il ciclo della marea rosa è da considerarsi ormai concluso. Il populismo di sinistra – se così si può ancora chiamare – è rimasto al potere ininterrottamente solo a costo di una svolta anti-democratica come in Venezuela, mentre laddove la sinistra è tornata a vincere, la differenza con il populismo di sinistra dei primi anni 2000 è palpabile.

Alla luce di quanto analizzato, emergono diversi interrogativi. A dieci anni dall'ascesa di Podemos e a venticinque anni dall'arrivo di Hugo Chávez al potere in Venezuela, quali sono stati i successi del populismo di sinistra? Quali invece i suoi limiti? Rappresenta ancora una pratica promettente per la politica emancipatrice? Quali lezioni rimangono sul piano teorico? Stiamo assistendo a un esaurimento della sua capacità di mobilitazione, e in caso affermativo, quali sono i motivi? Sono questi i temi sui quali verterà il convegno “Cos’è rimasto del populismo di sinistra? Riconsiderazione teoriche ed empiriche” organizzato da Polidemos – Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici che si terrà il 23 e 24 maggio presso l’ASERI (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, Via San Vittore, 18).

 

Samuele Mazzolini è Ricercatore in Scienza Politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e Senior Fellow di Polidemos.

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