Damiano Palano
Nel suo monumentale trattato sul metodo del diritto naturale, il filosofo tedesco Christian Wolff (1679-1754) scrisse: “L’uomo è tenuto a raggiungere la felicità e a evitare l’infelicità, è tenuto a fare sforzi per essere felice e deve prendersi cura di se stesso per non essere infelice”. In quel principio si trovava anche il fondamento teorico della scienza dell’amministrazione che, secondo Wolff, doveva contribuire al raggiungimento della felicità individuale e collettiva. Un secolo dopo, Lorenz von Stein (1815-1890) ridefinì i contorni di quella nuova scienza, sostenendo che l’amministrazione dello Stato doveva dotarsi degli strumenti offerti dalle nuove discipline che studiavano la società.
Dopo la vittoria riportata sulla Francia del 1870, il modello prussiano di organizzazione dello Stato divenne l’esempio che quasi tutti in Europa finirono per emulare. Come mostra Andrea Rapini nel suo volume Lo Stato della felicità. Una storia sociale della Scienza dell’amministrazione in Italia (1875-1935) (Viella, pp. 181, euro 27.00), l’influenza si fece sentire anche nel nostro paese. Nell’ancora giovane Stato unitario, alcuni settori della classe dirigente liberale confidarono infatti che un contributo essenziale per consolidare l’assetto istituzionale potesse giungere proprio dalla scienza dell’amministrazione che Wolff e soprattutto von Stein avevano tenuto a battesimo. Sostenere che lo Stato, per rispondere all’urgenza della “questione sociale”, dovesse attingere agli strumenti delle scienze sociali significava però entrare in conflitto con l’élite formatasi all’interno delle Facoltà di Giurisprudenza. E con la convinzione che solo gli studi giuridici fossero adeguati al governo delle istituzioni. In altre parole, la scienza dell’amministrazione veniva così a sfidare “il monopolio della legittimazione simbolica dello Stato” detenuto dai giuristi. E per alcuni decenni l’incursione nei territori che i cultori del diritto ritenevano di poter dominare ebbe effettivamente successo. Ma si trattò di un successo effimero.
A farsi alfiere della necessità di rinnovare le scienze dello Stato attingendo a nuovi metodi di indagine, fu innanzitutto Angelo Messedaglia, che riteneva che quegli strumenti fossero indispensabili per affrontare la sempre più urgente questione sociale. Raccogliendo sollecitazioni simili, Ruggiero Bonghi, nelle vesti di ministro della Pubblica Istruzione, nel 1875 emanò un regolamento che prevedeva la creazione, all’interno delle Facoltà di Giurisprudenza, di un corso giuridico-amministrativo, con insegnamenti tanto di Statistica quanto di Scienza dell’amministrazione. La novità però durò poco e fu solo il fascismo a consentire l’istituzione di nuove Facoltà di Scienze politiche. Anche in questo caso non venne comunque meno la costante avversione del mondo dei giuristi, o quantomeno di alcuni.
Come mette in luce Rapini, la scienza dell’amministrazione – un contenitore che in realtà comprendeva al suo interno elementi propri dell’economia politica, della statistica, della sociologia e di altre scienze sociali – non era semplicemente vista come una ‘minaccia’ per coloro che ritenevano che lo strumento indispensabile per il governo della società fosse rappresentato (più o meno esclusivamente) dalla scienza giuridica. Alla base del contrasto si trovava anche una differente concezione dello Stato. Nella prospettiva della “scuola giuridica nazionale”, di cui Vittorio Emanuele Orlando era il principale esponente, lo Stato, in quanto “persona”, doveva essere concepito come un soggetto unitario, ben distinto dalla società e da ogni organizzazione ‘privata’ (compresi i partiti politici). Al contrario, i cultori della scienza dell’amministrazione tendevano a vedere lo Stato come uno ‘strumento’ al servizio della società e, dunque, volto alla risoluzione dei problemi posti dal processo di industrializzazione. Giovanni Vacchelli, tra i principali sostenitori della disciplina, invitava per esempio a mettere al primo posto il “fatto sociologico”, ossia le basi sociali su cui le istituzioni si reggevano. E sosteneva che lo Stato, nella sua forma “democratica”, non dovesse limitarsi alla conservazione degli equilibri sociali, ma avesse il compito di puntare al “maggior benessere della società”.
Il contrasto fra le due posizioni (che Rapini ricostruisce anche indagando l’andamento dei concorsi universitari) durò per alcuni decenni. Dopo il 1915 iniziò però un processo di deistituzionalizzazione della disciplina, che raggiunse il culmine nel 1935, con la cancellazione dei corsi di scienza dell’amministrazione, sostituiti interamente dagli insegnamenti di diritto amministrativo.
Un’eccezione in questa vicenda fu rappresentata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, che fin dalla nascita aveva istituito una Facoltà di Scienze sociali e che riservò una costante attenzione alla disciplina, anche grazie al contributo dello stesso Vacchelli, oltre che di Romeo Vuoli, docente per molti anni nell’Ateneo di padre Gemelli. Non si trattava naturalmente di una coincidenza, perché le scienze politiche coltivate all’Università Cattolica, pur riconoscendo un ruolo fondamentale allo Stato, assumevano come presupposto la centralità della società e delle sue molteplici articolazioni associative. Più che una “persona”, come la dipingeva gran parte della dottrina giuridica, lo Stato andava dunque considerato come uno strumento, da aggiornare con nuove conoscenze, per affrontare adeguatamente i problemi posti dalla trasformazione sociale.
Eliminata quasi del tutto dagli ordinamenti universitari italiani, la scienza dell’amministrazione vi sarebbe tornata solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, il modello non sarebbe stato però offerto dalla “scienza della felicità” di Wolff e Stein, bensì dalla political science nord-americana. E più che sull’indagine della società, la disciplina si sarebbe rivolta verso le istituzioni statali e il loro funzionamento.
Damiano Palano è Direttore dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) e di Polidemos
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