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Argentina: peronismo sotto attacco

Argentina: peronismo sotto attacco

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Samuele Mazzolini

 

“Come sempre, ci metteremo il corpo. I peronisti non scappano, quello lo fa la destra, noi non siamo dei mafiosi”. Così si è espressa la già due volte presidentessa dell’Argentina Cristina Fernández de Kirchner, non appena appresa la condanna definitiva a sei anni di reclusione (scontabili ai domiciliari, in virtù dell’età) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici emessa nei suoi confronti dalla Corte Suprema di Giustizia.

Finisce dunque così l’iter di un processo che aveva già visto una condanna in primo e secondo grado e che attendeva solamente l’ultima parola della suddetta corte a fronte degli appelli avanzati dalla difesa. I fatti di quella che è conosciuta come “Causa Viabilità” si riferiscono al periodo 2007-2015, anni in cui la politica peronista era alla guida della Nazione. La sentenza la dichiara colpevole di aver concesso 51 opere pubbliche in maniera fraudolenta a un imprenditore, Lázaro Báez, amico della famiglia Kirchner. Tali opere, da realizzare nella provincia patagonica di Santa Cruz, sarebbero state appaltate con vistosi sovrapprezzi per poi rimanere largamente inconcluse.

I sostenitori di Cristina Kirchner rifiutano la versione offerta dall’accusa e avallata (seppure parzialmente) dai giudici, parlando apertamente di lawfare, ossia di un impianto accusatorio confezionato ad arte dai mezzi di informazione e dalle élite del paese, volto a neutralizzare un’avversaria politica. Secondo questa tesi, l’ex presidentessa sarebbe soltanto colpevole di aver promulgato politiche di redistribuzione economica durante i suoi due mandati, una “colpa” che la accomuna ad altri leader politici sudamericani colpiti da processi spesso caratterizzati da vizi procedurali e vistose mancanze di prove.

Tra tutti, il brasiliano Ignacio Lula da Silva – che dopo un anno e mezzo di carcere è però tornato a Palácio do Planalto nel 2023 – e l’ecuadoriano Rafael Correa – tuttora ricercato dalla giustizia ecuadoriana e quindi impossibilitato a far ritorno in patria dal 2017. Si tratterebbe di una strategia orchestrata a livello continentale che colpisce tanto i leader dei processi della cosiddetta “marea rosa” quanto i ranghi alti e intermedi, e che si propone di punire l’audacia dimostrata nei confronti di interessi economici e potentati locali, impedendo al contempo il ritorno al potere di queste compagini politiche.

Dallo spazio antistante la sede del Partito Giustizialista di cui è la presidentessa in carica, Cristina Kirchner, a caldo, ha rincarato la dose. Riferendosi ai tre giudici della corte, ha sentenziato a sua volta: “questo triumvirato impresentabile è composto da tre burattini che rispondono ad ordini che vengono da molto al di sopra di loro: il potere economico concentrato dell’Argentina”. Le ripercussioni non si sono fatte attendere. Le strade di Buenos Aires e delle principali città del paese si sono riempite di sostenitori della ex presidentessa, che hanno protestato fino a notte fonda, scandendo i classici slogan peronisti. Una marea umana ha accompagnato Cristina Kirchner sotto la casa della figlia, dove si è recata in attesa della notifica della sentenza e dove con ogni probabilità sconterà i domiciliari. Diverse facoltà dell’Università di Buenos Aires sono state immediate occupate.

Le proteste sono destinate a crescere nei prossimi giorni. Per gli standard argentini, Javier Milei aveva goduto finora di una relativa pace sociale. Qualche sciopero generale, i presidi dei pensionati dei mercoledì pomeriggio presso la piazza del Parlamento, le proteste universitarie del 2024 contro il taglio del budget: poca cosa in realtà per un paese abituato a testimoniare ben altri livelli di scontro politico-sociale. A facilitare le cose a Milei c’è stata anche la netta spaccatura emersa all’interno del fronte peronista, con lo scontro tra Cristina Kirchner e il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, una volta delfino prediletto della stessa ex presidentessa.

La sentenza di ieri fa il paio con un altro attacco sferrato al peronismo, questa volta dall’esecutivo stesso. Solo pochi giorni fa, il governo di Milei ha infatti disposto la chiusura dell’Istituto Juan Domingo Perón, un centro studi dedicato alla memoria dello storico ex presidente argentino e situato all’interno dell’edificio che fu residenza dello stesso Perón e di Evita, la quale trascorse lì gli ultimi giorni della sua vita nel 1952. Il valore simbolico e affettivo che riveste questo luogo ha provocato la reazione di un gruppo di peronisti che, capitanati da Juan Grabois, uno dei dirigenti politici nazionali più in vista, si sono barricati all’interno dell’edificio. Il muscoloso intervento della polizia, con la detenzione temporanea del di Grabois, ha contribuito a infiammare gli animi, anticipando di poche ore soltanto il clima di polarizzazione che si vive nel paese.

Questi eventi hanno ricompattato il fronte peronista: non solo Kicillof ha annullato la sua agenda per i prossimi giorni e si è schierato compattamente al fianco di Cristina Kirchner, ma così hanno fatto anche i governatori peronisti del nord del paese che storicamente la detestano e con la quale mantengono importanti differenze ideologiche. Si riaccende così un’epica di resistenza, che ha fatto la fortuna del peronismo negli anni della sua prescrizione politica e dell’esilio dello stesso Perón tra il 1955 e il 1972. In vista delle elezioni legislative di ottobre, alle quali l’ex presidentessa aveva annunciato proprio pochi giorni fa la propria candidatura (ormai impedita in termini di legge) in qualità di aspirante senatrice, Milei rischia di trovarsi di fronte un avversario che, sino all’altro giorno dato per morto, sembra ora più che mai unito e galvanizzato. Basterà per ribaltare i rapporti di forza?

 

Foto di Nathaniel Shuman su Unsplash

 

 

           

 

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