Intervista

Argentina 2023: in gioco il futuro del Paese

Argentina 2023: in gioco il futuro del Paese

Condividi su:

 

di Sara Settimio*

 

Il 2023 sarà un anno contrassegnato da rilevanti appuntamenti elettorali che definiranno il destino di diversi Paesi. Tra questi vi è l’Argentina, un Paese con una complessa tradizione politica, che a Novembre andrà al voto. A seguito dell’incontro “Argentina, 2023: ¿agotamiento kirchnerista y radicalización macrista?”, abbiamo posto alcune domande a Javier Franzé, professore presso l’Università Complutense di Madrid, che lo scorso 21 marzo è stato ospite di Polidemos, con l’obiettivo di comprendere meglio il contesto odierno e le possibilità future di questo Paese.

 

In Europa abbiamo una concezione diversa di politica rispetto a quella argentina, infatti, spesso, equipariamo l’idea di “peronismo” con quella di “fascismo”, questa è una comparazione corretta?

Il peronismo, infatti, non era fascismo, fondamentalmente perché – seguendo la concezione liberale di fascismo – si muoveva dentro le istituzioni liberal-democratiche e non si considerava come l’unica rappresentazione della Nazione nel suo complesso, sebbene Perón avesse un’ideologia con forti accenti organicistici. E perché – seguendo l’interpretazione marxista del concetto di fascismo – non rappresentava la “guerra” della classe borghese e piccolo-borghese contro una classe operaia in ascesa, ma piuttosto il contrario: aveva l’appoggio della classe operaia urbana, che vedeva rafforzato il suo potere e la sua rappresentanza, e con l’opposizione delle classi medie e alte.

 

Pertanto, come spiegherebbe il peronismo agli europei per avvicinarli alla sua comprensione?

Per capire il peronismo è fondamentale comprendere il contesto di un Paese periferico come l’Argentina, che condiziona il modo in cui si svolge la lotta per l’uguaglianza, la quale non può essere equiparata a quella che si svolge in Europa (d’altra parte: perché dovrebbe essere comparabile ai Paesi centrali per poter dire che è “di sinistra” o che rappresenta una lotta per l’uguaglianza?). Il peronismo, e prima il yrigoyenismo, hanno capito che l’Argentina era un Paese dipendente. E che per questo la posta in gioco era la sovranità politica, che hanno sempre collegato alla democrazia. Per il peronismo e il nazionalismo popolare in generale, quello che esisteva in Argentina era un blocco di potere incentrato sulla grande borghesia terriera (chiamata “oligarchia”), su frazioni di Forze Armate ancora aristocratiche, su mezzi di comunicazione tradizionali e su formazioni politiche conservatrici. Questo blocco di potere era alleato con l’imperialismo – la Gran Bretagna in particolare e l’Europa in generale -, che acquistavano da esso materie prime per poi vendergli prodotti manifatturieri. Così, per il nazionalismo popolare, il paese rimaneva nelle mani di pochi, economicamente e politicamente, perché la ricchezza generata da questo modello di accumulazione non era distribuita, le campagne non erano capaci di generare pieno impiego, e politicamente non c’era democrazia, ma il controllo dall’alto da parte dell’élite conservatrice, che governava sulla base di brogli elettorali (così fu in Argentina fino al 1916, con il trionfo dell’Unione Civica Radicale, che aveva lottato per il suffragio universale [maschile]).

Il peronismo si opporrà a questo blocco di potere “oligarchico” creandone un altro basato su un’alleanza di classi (primo motivo per il quale la sinistra europea e la sinistra argentina, di stampo europeo, videro il peronismo come un “fascismo creolo” o, almeno, come un “nazionalismo borghese”): gli operai dell’industria urbana, la piccola borghesia “nazionale”, i settori delle Forze Armate e la Chiesa. Questo blocco era interessato allo sviluppo del mercato interno, non più allo sviluppo del mercato internazionale. Ciò avrebbe permesso un circolo virtuoso tra l’aumento dei consumi popolari e la tendenza all’industrializzazione (la famosa ISI: industrializzazione per sostituzione di importazione), a cui l’esercito era interessato per il suo lato industriale e la Chiesa perché nazionalizzava le masse, allontanandole dall’internazionalismo di classe di radice comunista e socialista.

Questo processo, con i suoi vantaggi e svantaggi, ha significato un’uguaglianza e una democratizzazione del potere sociale. Il peronismo, come vedeva Germani nel 1956, dava potere soprattutto – diremmo oggi – alle classi popolari, al punto che tolse dal cuore della Nazione l’oligarchia mettendo al suo posto il Popolo. La sinistra non riusciva a capirlo perché, aggrappandosi al determinismo economico, guardava a chi possedeva i mezzi di produzione, mentre la trasformazione radicale avveniva nel campo della soggettività. È questa, a mio avviso, la principale eredità del peronismo, e mi spingerei a dire che è stata rivoluzionaria. È difficile trovare una caratteristica più democratica del sentirsi in diritto di far parte della comunità politica. Anche se a volte comporta problemi in termini di elaborazione di questo diritto.

In definitiva, questo processo – insisto: con i suoi problemi interni e le sue contraddizioni, che non sono state poche – ha significato una forma di lotta creola per l’uguaglianza e la democrazia. In questo senso, si potrebbe dire che il nazionalismo popolare nei Paesi dipendenti ha dimostrato storicamente di poter essere un modo per rendere effettivi gli stessi valori – magari non esattamente con gli stessi risultati – della Socialdemocrazia in Europa.

 

L’attuale governo argentino ha sofferto una caduta dei consensi. Questo probabilmente si deve al fatto che il popolo considera che i problemi del Paese oggi, siano stati aggravati dal governo di Alberto Fernández e dalla sua cattiva gestione della pandemia. Possiamo dire che il Paese sia arrivato alla fine di un ciclo politico?

Il Paese sembra giungere alla fine di un ciclo politico, però più che per gli scarsi risultati di un governo, a causa del logoramento prodotto da quello che – ricorrendo al concetto utilizzato da Juan Carlos Portantiero nel 1977 – possiamo denominare lo “stallo egemonico” tra il peronismo kircherista e il macrismo. Lo stallo egemonico significa che nessuna dei due settori è in condizioni di costruire un progetto Paese che includa l’altro come subalterno. In altre parole, nessuno dei due ha la capacità di costruire l’egemonia, ma ha la capacità di porre il veto all’altro. Questa situazione di stallo impedisce a entrambi di costruire e negoziare il proprio progetto Paese. Ma in questa impasse il Paese diventa sempre più disuguale e oligarchico. In questo modo, l’impasse finisce per favorire i più potenti.

Il destino del governo di Alberto Fernández dipendeva da molti elementi. Tra questi, soprattutto, l’impatto della pandemia e, successivamente, quello della guerra in Ucraina. La pandemia è stata particolarmente dura in un Paese con un alto tasso di lavoratori informali (il 45%, secondo OIT). Ciò ha reso molto difficile il monitoraggio del necessario confinamento, poiché le persone non erano registrate e non potevano ricevere aiuti statali. Tuttavia, la pandemia non è stata gestita male dal governo, aldilà di alcuni errori importanti, come la festa nella residenza presidenziale (e le successive “scuse”). Solo poche voci, provenienti dai settori più potenti, si sono lamentate della “mancanza di libertà individuale” e hanno voluto anteporre i loro privilegi alla salute pubblica. In Europa, che questi settori dicono di desiderare e credono di meritare, il confinamento è stato altrettanto severo, se non più severo, di quello argentino.

 

E, allora, che cosa è accaduto?

Il problema centrale è che il governo è stato attaccato dall’interno, fondamentalmente dal nucleo del kirchnerismo, e all’esterno, dall’opposizione. Da quest’ultimo era prevedibile, però l’attacco del kirchnerismo non era così scontato. Infatti, Cristina Fernandez de Kirchner ha designato nel maggio 2019 Alberto Fernández come candidato presidente – e se stessa come vicepresidente – precisamente perché sembrava rendersi conto che il suo discorso, che sosteneva una politica più trasformista, non sarebbe stato appoggiato dalla maggioranza sociale. La cosa incoerente è che, in seguito, non ha mantenuto questa posizione, e sembrava esigere da Alberto Fernández una linea kirchnerista, che lei stessa aveva scartato in quanto infattibile. La critica è possibile e necessaria, però non in pubblico, perché l’unica cosa che ha ottenuto è stato dare spazio all’opposizione, che si è seduta a guardare con gioia il fallimento della scommessa che proprio Cristina Fernández aveva costruito e che, in quanto tale, aveva ottenuto un esito elettorale. Così, il kirchnerismo si è privato anche di un possibile cammino per il 2023.

Alberto Fernández non ha avuto la forza per affrontare un’impresa molto difficile, quasi impossibile: rendersi indipendente dal kirchnerismo, così come aveva fatto Néstor Kirchner con Duhalde, suo mentore, durante il governo (2003-2007). Però Duhalde non aveva né la leadership né il peso politico di Cristina Fernández, né Alberto Fernández la capacità e l’iniziativa politica di Nestor Kirchner. Dall’altra parte, non era quello che tutti si aspettavano da lui.

Non credo che i principali mali del paese (a mio parere, la disuguaglianza), risalente a circa cinquant’anni fa, siano stati particolarmente aggravati dal governo di Alberto Fernández, come è invece stato per il governo di Mauricio Macri (2015-2019). È difficile che un governo concluda con successo in Argentina. Solo pochi ci sono riusciti. Tra questi, il primo governo di Néstor Kirchner e il primo di Cristina Fernández (2007-2011). Ma avevano condizioni internazionali favorevoli, l’opposto di quello che è successo ad Alberto Fernández. E sono stati guidati da due figure politiche molto particolari, una qualità che non è propria di Alberto Fernández un presidente “all’uruguaiana”, per capirci. Questa, che poteva essere una qualità in un panorama di tensione, alla fine non è stata valorizzata. In molti casi, ritengo che la critica a Fernandez abbia componenti autoritarie, in quanto gli si chiede una sorta di “capacità di imporsi”, che poi viene criticata in nome della “Repubblica”.

 

C’è un acceso dibattito, in particolare su una figura di queste elezioni, Javier Milei. Può essere considerato il fenomeno elettorale del momento?

Javier Milei è la novità della politica argentina degli ultimi anni. Resta da vedere se riuscirà a trasformare questa novità in un fenomeno elettorale. Soprattutto perché fino ad ora pare essere un movimento centrato nella Capitale Federale, dove è deputato, avendo ottenuto il 17% nel 2021, il che lo rende la terza forza, lontano dal 47% del Macrismo e un po’ più vicino al 25% del Kirchnerismo. Milei sostiene un discorso anarco-capitalista, ultra liberale dal punto di vista economico e securitario dal punto di vista politico. Secondo gli esperti, è riuscito a riunire la “ribellione” contro lo Stato e la classe politica, che chiama “casta”, come faceva Podemos all’inizio in Spagna. Ovviamente, critica la politica dei diritti umani, che costituisce la base etico-politica della democrazia argentina dal 1983.

 

Ma, quindi, chi è Milei?

Ciò che è interessante di Milei è che mette in scena una carenza molto forte di quello che, in mancanza di altri termini, chiamerei “progressismo” o anche “centro-sinistra”. Infatti, in un Paese nel quale lo Stato non ha nessuna capacità di dirigere la politica né di definire delle regole sociali, Mieli è riuscito a convincere (vedremo quanti) che il problema è l’eccessivo potere dello Stato, che frenerebbe la capacità “imprenditoriale” dei suoi cittadini. In altre parole, a limitare la libertà individuale, e con questa il progresso materiale e vitale. Ciò è possibile in buona misura perché, i settori progressisti, non sono stati capaci di trattare un tema chiave per spiegare la disuguaglianza in Argentina: il sistema fiscale è molto regressivo, oltre all’elevata evasione fiscale, a cui si somma la già citata informalità lavorativa. La tradizione nazional-popolare ha avuto grandi difficoltà a politicizzare questo aspetto, forse a causa della tendenza ad allearsi con la borghesia nazionale.

Milei è il culmine di questa tendenza antistatale che dura da decenni. Se la diminuzione dell’uguaglianza in Argentina è stata storicamente frutto della capacità di intervento dello Stato, che a sua volta è il risultato della mobilitazione di ampi settori sociali, immaginiamo cosa resterebbe di questa uguaglianza malconcia se venisse attuato il programma hayekiano di Milei. Il problema, inoltre, è che Mieli è riuscito a trascinare il dibattito pubblico a destra, e così i settori più duri del macrismo, come Patricia Bullrich, promettono di non ricadere nel presunto gradualismo in cui sarebbe incorso il governo Macri.

 

Che cosa c’è in gioco nelle elezioni argentine?

In definitiva, la debolezza dello Stato in Argentina si esprime nella mancanza di un sistema fiscale progressivo. Questo, a sua volta, ha portato a disuguaglianza ed esclusione sociale. Ora la destra propone di approfondire questo cammino, già intrapreso durante il suo governo (2015-2019): una “mano dura” in tema di sicurezza e maggior potere al mercato. Se il progressismo non interrompe i suoi conflitti interni e si pone seriamente su questi temi, il futuro del paese potrebbe essere molto peggio di quello che si immagina.

Quello che è in gioco in Argentina è se la democrazia sarà un mero regime elettorale o uno stile di vita, in cui, attraverso le forme di stato sociale, la comunità di assume la responsabilità dei soggetti che produce, oppure li abbandonerà al proprio destino incolpandoli di una “sconfitta” a cui li ha precedentemente condannati.

 

* Studentessa del Corso di Laurea Magistrale in Politiche Europee e Internazionali

 

 

Data

Condividi su:

Newsletter

Iscriviti alla newsletter