a cura di Polidemos
"Altopiano" è una nuova rivista quadrimestrale di analisi politica. Il Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici ha avuto il piacere di dialogare con il suo direttore, Marco Almagisti, professore associato di Scienza politica presso l'Università degli Studi di Padova, per comprendere le ragioni di questa nuova avventura editoriale.
Innanzitutto, perché avete scelto questo nome? In secondo luogo, a quale tipo di pubblico vi rivolgete e quale vorreste fosse la caratteristica distintiva della vostra proposta?
La scelta del nome “Altopiano” è un omaggio esplicito a un libro che ci è molto caro: I piccoli maestri di Luigi Meneghello. Questo richiamo è per noi altamente simbolico. Negli anni Quaranta l’Altopiano di Asiago è stato il luogo di rinascita per alcuni giovani italiani che scelsero la via impervia del dissenso e della rivolta rispetto alla dittatura, nella loro eterogeneità contribuendo a porre le basi ideali per il mondo di poi e come tali sono stati immortalati nelle pagine di Meneghello. Molto più modestamente, oggi noi vorremmo mettere a disposizione questo nostro piccolo “Altopiano” cartaceo come spazio di riflessione e confronto. Sono particolarmente contento che, già nel primo numero, si sia trovato lo spazio per un focus dedicato alla figura di uno studioso eclettico quale Percy Allum, un analista che ha saputo viaggiare fra le costellazioni del sapere, intrecciando fra loro scienza politica, sociologia e storia, in origine incardinatosi nel Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Reading, fondato e diretto da Meneghello, e poi docente nelle Università di Napoli e di Padova. Come ricorda Patrizia Messina, Allum ha offerto a tutti noi una lezione epistemologica preziosa, analizzando la realtà in modo spiccatamente interdisciplinare. Le altre voci di questo forum (Lorenza Perini e Daniela Piana) ricordano in particolare l’ultima ricerca condotta da Allum, ricostruendo una inusuale vicenda (una giunta comunale completamente femminile nell’Italia degli anni Sessanta), avvenuta in un piccolo paese (Rotzo) collocato sull’Altopiano di Asiago. Come si può vedere, qui emerge un modo di intendere la ricerca nelle scienze sociali, legata a contesti territorialmente e culturalmente profilati, studiati nel loro divenire storico. È una prospettiva che riteniamo molto importante per la comprensione dei fenomeni contemporanei. E che desideriamo condividere con quanti sono interessati ad approfondire in questo modo l’analisi dei fenomeni politici e sociali. Per questo ci rivolgiamo agli studiosi di scienza politica, sociologia, storia, al mondo del giornalismo, della comunicazione e della scuola e, più in generale, ai cittadini interessati.
Nell'editoriale di apertura della vostra rivista, ha indicato, tra le ambizioni che vi proponete, quella di approfondire le indagini sui territori con una profondità storica. Quali sono i punti di riferimento a cui guardate e quali sono i campi disciplinari che pensate possano contribuire al vostro lavoro?
In realtà, ci sono ampie zone di confine in cui il confronto interdisciplinare, basato sull’analisi contestuale, territoriale e storica, risulta abbondantemente praticato e da tempo. Penso, al riguardo (e alla formulazione di questo pensiero di certo influisce la mia formazione “padovana”) all’insieme di studi dedicati alle culture politiche.
Recentemente, un grande studioso che ha sempre praticato forme proficue di ibridazione fra scienza politica e storia, quale Mario Caciagli ha sostenuto: «se il ricorso alla storiografia è forse imprescindibile per tutta la scienza politica, lo è sicuramente per lo studio della cultura politica. Nel variegato materiale fornito dalla storiografia si ritrovano le origini e i componenti di una cultura politica». In effetti, esistono feconde e articolate tradizioni di ricerca che confermano quanto afferma Caciagli: sin dai primi studi sulla partecipazione politica degli italiani, abbiamo le analisi dell’Istituto Cattaneo di che si concentrano sulla ricostruzione di contesti specifici utilizzando diversi metodi: studio di dati elettorali aggregati a livello comunale o provinciale, dell’organizzazione di partiti, sindacati, associazioni, e interviste in profondità ai militanti, utilizzo di fonti secondarie, ricostruzioni delle storie politiche locali. Nel più vasto contesto europeo un altro grande studioso eclettico, quale il norvegese Stein Rokkan, abitante delle fertili “terre di mezzo” fra scienza politica, sociologia e storia, propone di interpretare il nesso fra offerta partitica e culture politiche diffuse, in base ai conflitti politici di lungo periodo, ricostruendo l’importanza della loro strutturazione nel tempo e nello spazio. Proprio mentre negli Stati Uniti si va affermando l’approccio di Daniel J. Elazar orientato allo studio delle subculture dei vari Stati dell’Unione: oggi discorrere di polarizzazione politica e territoriale degli States è diventata ormai un’attività consuetudinaria, ma farlo negli anni Sessanta significava ridisegnare le mappe culturali del paese e indicare un percorso di ricerca orientato verso il futuro. Nel frattempo, in Inghilterra, si forma un attento lettore di Gramsci e dello stesso Rokkan, quale il già citato Percy Allum. Allum matura un contributo originale allo studio delle culture politiche locali, incentrato sugli aspetti simbolici e organizzativi e sulle matrici storiche delle ideologie contemporanee, che, grazie alle sue esperienze didattiche nelle Università di Padova e di Napoli, contribuisce ad avviare filoni di ricerca fecondi per generazioni di studiosi. La concomitanza di tali esperienze di ricerca non è casuale. È lo stesso clima di effervescenza sociale dei secondi anni Sessanta che induce a oltrepassare i limiti epistemologici allora presenti nelle scienze sociali dominate da formalismo e comportamentismo, restituendo alla politica tutta la sua complessità. Ricordando le parole scritte da Gianfranco Pasquino quasi quarant’anni fa, si tratta di «una rivoluzione che potremmo definire weberiana, se teniamo conto degli apporti che Max Weber ha dato all’analisi dei sistemi politici nella loro globalità, alla prospettiva comparata, all’impostazione storica e all’importanza dei fattori culturali». Ecco, noi pensiamo che questa prospettiva possa essere decisiva ancora oggi, per potenziare la comprensione di fenomeni sfaccettati e rafforzare gli intrecci fra discipline diverse. Solo per fare un esempio, è degno di nota che l’incontro fra scienza politica – e scienze sociali in generale – e la storia possa essere agevolato da alcune tendenze affiorate quasi contemporaneamente fra gli stessi storici. Carlo Ginzburg ha evidenziato l’affermazione, dagli anni Settanta, della cosiddetta “microstoria”, che non solo ha garantito un notevole contributo all’analisi di contesti territorialmente determinati, ma aiuta a far emergere gli elementi “feriali” della vita associata. Sempre fra anni Sessanta e Settanta, nella storiografia francese legata alla rivista Annales, maturano gli studi sulla sociabilità e sulla simbologia politica condotti da Maurice Agulhon, sulla cui scia si è mosso poi pure Tony Judt che, in riferimento al radicamento del socialismo nel Var e alla sua durata nel tempo, ha evidenziato il ruolo dei fattori culturali più dell’analisi di classe. Questi studi hanno poi trovato ricettività nelle ricerche di storici italiani aperti al confronto interdisciplinare, quali, ad esempio, Maurizio Ridolfi e Paolo Pombeni.
Negli ultimi anni molte riviste hanno cercato di collocarsi in ambiti disciplinari specifici, anche se questo ha comportato spesso la fuoriuscita dal dibattito pubblico. "Altopiano" che tipo di posizione prende su questa questione? È una rivista che vuole partecipare alla discussione pubblica?
Esiste una notevole crescita di riviste specialistiche in grado di coprire ormai l’intero universo delle scienze sociali, dedicandosi anche agli ambiti più specifici. Questo è un fattore positivo e riflette l’evoluzione di queste discipline. “Altopiano” si prefigge obiettivi differenti: non persegue la specializzazione, bensì intende lavorare sulle connessioni. Gli studiosi che hanno dato vita a questa rivista fanno propria la precisazione che Leonardo Morlino scrisse nel 1989 all’inizio del suo volume intitolato “Scienza Politica” (Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli): «il problema è oggi quello dei rapporti fra i campi del sapere, invece che di confini, come si poneva prima. Anzi, paradossalmente, i contributi più significativi sono venuti proprio da settori intermedi tra filosofia politica e scienza politica, tra storia e scienza politica, tra economia e scienza politica, tra sociologia e scienza politica». Sono passati 34 anni da allora e quanto indicato da Morlino continua a essere una buona via da seguire.
In questo senso, “Altopiano” aspira ad essere un crocevia tra discipline differenti e un luogo il più possibile aperto e inclusivo. Per partecipare, per quelle che sono le nostre possibilità, alla discussione pubblica con contributi che possano contribuire a mettere a fuoco alcune questioni politiche e sociali contemporanee.
In uno dei primi articoli della rivista, Sidney Tarrow propone una lettura incrociata della polarizzazione italiana degli anni sessanta e settanta e di quella statunitense di oggi. È un tema che ritroviamo anche suo ultimo libro "Una democrazia possibile", focalizzato sull'Italia. Come valuta lo stato della democrazia italiana di oggi? Vede rischi significativi all'orizzonte? O ritiene che si rimanga nella fisiologia di un sistema politico in mutamento?
Il contributo di Sidney Tarrow è illuminante. Per questa ragione, d’accordo con l’autore, abbiamo deciso di titolarlo “Rovesciare la prospettiva”. Frutto di una lunghissima esperienza di ricerca di Tarrow in Italia e negli States, l’articolo inizia richiamando l’eccezionalismo americano quale convinzione radicata negli studiosi cresciuti durante la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, quali Gabriel Almond, David Truman o Joseph La Palombara. Per questi analisti la forza della democrazia americana si fondava sul suo “pluralismo moderato”, scaturente dalla contesa fra molteplici gruppi di interesse concorrenti. Nei paesi europei – e, segnatamente, in Italia – il ruolo dei partiti era molto maggiore, così come l’influenza dei medesimi sugli stessi gruppi di interesse. Per questa ragione, secondo gli analisti nordamericani i sistemi politici europei risultavano lacerati da un’estrema polarizzazione, instabili e suscettibili di declino democratico. In realtà, Tarrow ricorda che anche la democrazia americana ha una lunga tradizione di polarizzazione politica. Inoltre, gli studi di Tarrow sull’Italia e sul ruolo del PCI confermano un apparente paradosso ben noto a molti sociologi e scienziati politici, ossia il c.d. paradosso “dell’integrazione negativa”: ossia «che un partito di sinistra “anti-sistema” [può] diventare un baluardo in un sistema politico polarizzato e aiut[are] a mantenere viva la democrazia durante la polarizzazione».
Su una cosa concordo senz’altro con quanto scrive Tarrow: sulla funzione integrativa svolta dai partiti di massa nei primi decenni dell’Italia repubblicana. Quel modello di partito risulta oggi irriproducibile e un sistema partitico destrutturato da trent’anni alimenta instabilità. Personalmente, credo che oltre ai progetti di riforma istituzionale una riflessione necessaria dovrà riguardare quali tipi di partiti possano adattarsi alla società contemporanea e alla democrazia contemporanea. È una questione decisiva, vitale per una democrazia, dato che di democrazie senza partiti ancora non se ne sono viste.
Nei suoi lavori si è spesso interessato alle linee di frattura individuate da Stein Rokkan. In Italia queste fratture sono ancora politicamente rilevanti? O sono emerse nuove fratture?
Vivo e lavoro in Veneto, in cui, alle ultime elezioni regionali, Luca Zaia si è confermato Presidente con il 76,8% dei suffragi. Essendo il richiamo all’autonomia (regionale) il tratto identitario principale della leadership di Zaia è difficile non correlare questo risultato politico con gli effetti di lungo periodo della rokkaniana frattura centro-periferia e del localismo conseguente. Pertanto, in un paese altamente differenziato e frammentato aspetterei a considerare irrilevante tale linea di frattura.
Certo, diviene necessario chiedersi se possono emergere nuove linee di frattura. Ed è quanto già dal secondo numero di “Altopiano” Luigi Di Gregorio ed io proveremo a fare. In particolare, ci chiederemo se è ancora utile occuparci delle linee di frattura di Rokkan, in una fase storica in cui i partiti hanno perso un po’ ovunque il potere di rappresentanza di gruppi o classi sociali. In particolare, a seguito dei processi di personalizzazione e di mediatizzazione che hanno reso sempre più rilevante la fenomenologia del (o della) leader e la sua capacità strategica di agire in senso market oriented. Eppure, in particolare dopo il referendum sulla “Brexit” e l’elezione di Trump come presidente degli Stati Uniti, ha iniziato a diffondersi tra analisti e studiosi l’ipotesi di un ritorno della rokkaniana frattura città-campagna, perché in diverse democrazie nei grandi centri urbani tende a vincere la sinistra liberal-progressista, mentre nelle aree periferiche tende a vincere la destra conservatrice. In realtà, questa lettura poco ci persuade, a causa dell’indeterminatezza del secondo termine della contrapposizione. Il conflitto fra la “città” e la “campagna” scaturiva dalla rivoluzione industriale e comportava spopolamento della “campagna”, urbanizzazione, conflitto fra le politiche a sostegno del settore industriale (secondario) e quelle a sostegno del settore agricolo (primario). Ma oggi circa 3 lavori su 4 ricadono nel settore dei servizi (terziario). Appare evidente che la frattura oggi esistente tra voto metropolitano e voto periferico abbia un’origine diversa, legata alle dinamiche della globalizzazione e ai suoi contraccolpi (non solo economici ma anche culturali).
Se tutto questo possa diventare la base per una linea di frattura solida e duratura, da cui scaturiranno elementi strutturali, valoriali e organizzativi coerenti nei prossimi anni è presto per dirlo. Tuttavia, quanto più si polarizzeranno questi due diversi modi di guardare al mondo contemporaneo e ai processi che lo stanno trasformando, tanto più sarà verosimile che i margini per la politica market oriented si ridurranno, in favore di un nuovo allineamento ideologico che potrebbe ritrutturare lo spazio politico delle democrazie occidentali.