di Damiano Palano
Poco meno di mezzo secolo fa il celebre rapporto commissionato dalla Trilateral a Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki proponeva una lettura dello stato delle democrazie dei paesi industriali destinata a incidere in profondità. I regimi democratici del Nord America, dell’Europa occidentale e del Giappone, secondo il rapporto, erano investiti da una “crisi” che richiedeva interventi a più livelli. Le radici più profonde del fenomeno andavano cercate in quella “rivoluzione silenziosa” che aveva reso le nuove generazioni, cresciute in un clima di benessere senza precedenti, molto più predisposte al perseguimento di valori “postmaterialisti”. Le manifestazioni erano la crescita della partecipazione politica in forme non convenzionali e la proliferazione delle richieste indirizzate alle istituzioni. Ed era proprio il sovraccarico delle pressioni provenienti ‘dal basso’, insieme all’erosione del principio di autorità, a profilare il rischio che le democrazie fossero travolte dal successo della società opulenta.
Venticinque anni dopo, un nuovo rapporto della Commissione Trilaterale, realizzato da Susan J. Pharr e Robert D. Putnam, fotografava una situazione quasi totalmente opposta. In questo caso, i problemi per la democrazia non sembravano più derivare da un eccesso di partecipazione, bensì dalla crescente disaffezione dei cittadini nei confronti della sfera politica. Nelle sue ricerche successive Putnam non ha cessato di osservare i mutamenti della democrazia americana, concentrandosi in particolare sulle conseguenze di quello che, ai suoi occhi, appare un progressivo disfacimento del capitale sociale di civismo. Per una serie di trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche, l’individualismo crescente avrebbe eroso i sentimenti di appartenenza comunitaria che davano sostegno alle istituzioni e che ne garantivano il buon rendimento. Nel suo lavoro più recente, scritto insieme a Shaylin Romney Garrett, le conclusioni cui giunge riconoscono i tratti di un declino costante del civismo: «Nei primi sei decenni del XX secolo l’America era diventata in modo evidente, anzi misurabile, una società più orientata al ‘noi’. […] Nel passare dagli anni ’60 agli anni ’70, ’80 e oltre abbiamo ricreato velocemente il baratro socioeconomico dell’ultima Età dell’oro. Nello stesso periodo abbiamo sostituito la cooperazione con la polarizzazione politica. Abbiamo permesso alla nostra comunità e ai nostri legami familiari di allentarsi in misura marcata. La nostra cultura si è orientata molto più sull’individualismo e ha perso interesse per il bene comune».
Per quanto rappresentino un punto di riferimento importante, letture come quelle di Putnam non lasciano molto spazio all’ottimismo. La decadenza del capitale sociale e del patrimonio di civismo sembrano infatti scritte nella logica della trasformazione socio-economica dell’ultimo mezzo secolo. E sembra persino impossibile individuare qualche traccia di un’inversione di tendenza.
Il problema di simili interpretazioni non sta però soltanto nel rischio di adottare degli schemi più o meno deterministi, quanto nel modo stesso di vedere il rapporto tra valori e democrazia, e dunque forse anche nel modo di concepire lo stesso civismo. Loredana Sciolla, in un contributo apparso recentemente su «Altopiano» (2/2023), ha sottolineato come in effetti il concetto di “civismo” sia piuttosto ambivalente e confonda piani tra loro non necessariamente convergenti. Se infatti la civicness indica soprattutto fiducia nelle istituzioni, non è detto che spinga alla partecipazione attiva (in campo politico o associativo). E non è affatto detto che una crescita del civismo, alimentato da una sorta di «tradizionalismo di ritorno», debba essere foriero di una crescita dalla partecipazione, anzi è più probabile il contrario.
Si possono nutrire pochi dubbi sulla fiducia dei cittadini occidentali nei confronti dei partiti e in generale della classe politica, perché i dati delle rilevazioni condotte negli ultimi due decenni ci mostrano come si tratti di un rapporto quantomeno logorato, in alcuni casi debolissimo. Le cose sono però diverse rispetto ad altre istituzioni, nonostante le risposte degli intervistati risentano molto, in questo caso, del clima del momento (che, in fasi di emergenza, spinge a stringersi “intorno alla bandiera”). Ma il discorso è ancora differente se il focus diventa la partecipazione, perché, sotto questo profilo, le cose sembrano davvero abissalmente distanti dal XX secolo. E non solo perché l’affluenza alle urne anche in Italia ha subito un’emorragia all’apparenza inarrestabile, o perché gli iscritti ai partiti sono calati notevolmente dalla fine degli anni Ottanta. Ma perché la partecipazione alla vita politica mediante anche una militanza sporadica è qualcosa che riguarda ormai una sparuta minoranza e perché oggi si tende a partecipare – o ad avere l’illusione di partecipare – in modi molto diversi dal passato. In modi che spesso definiamo “disintermediati”, anche se di fatto sono molto più mediati di quanto immaginiamo.
Se anche per questo abbiamo la necessità di esplorare a fondo ciò che avviene nelle nostre società, dobbiamo però chiederci se abbiamo davvero bisogno di un concetto come quello di “civismo”. O se invece quella visione delle virtù civiche non rischi di farci imboccare la direzione sbagliata e di suggerirci interpretazioni semplificate di quanto sta avvenendo. Ma se ne abbiamo davvero bisogno, come è probabile, forse dovremmo anche rivedere un concetto plasmato sul ricordo nostalgico di una vita comunitaria perduta e mettere in luce come esistano diversi modelli di “civismo” e come non coincidano (necessariamente) con la partecipazione. E, più che cercare di capire se il civismo rafforzi o indebolisca la partecipazione, dovremmo forse tentare di comprendere come i diversi modelli di virtù civica vadano a modificare il nostro modo di concepire il “dover essere” della democrazia.
Damiano Palano è Direttore del Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici.