Luca G. Castellin
Qualche giorno fa, un breve messaggio su Truth Social di Donald Trump ha riportato al centro del dibattito mondiale un tema che ormai da tempo sembrava destinato a un perenne oblio. «Ho dato istruzioni al Dipartimento della Guerra», ha scritto il Presidente degli Stati Uniti, scatenando reazioni immediate nella comunità internazionale, «di iniziare a testare le nostre armi nucleari su base paritaria». Nessuno è poi riuscito a – né (forse) ha voluto – chiarire se l’inquilino della Casa Bianca si riferisse a test missilistici convenzionali o a vere e proprie esplosioni nucleari.
Ma il semplice fatto che la frase fosse ambigua è già di per sé significativo. In tal senso, non sono mancate le critiche di numerosi esperti. Per Hans Kristensen, Direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists, le affermazioni di Trump – come quelle sull’arsenale nucleare americano e il suo piano di ammodernamento – sono «palesemente false». Parole che trovano conferma in un’inchiesta del Washington Post, nella quale si sottolinea come la ripresa dei test nucleari statunitensi richiederebbe anni (gli Stati Uniti, infatti, non conducono test esplosivi dal 23 settembre 1992) e costerebbe centinaia di milioni di dollari.
Questa retorica della “forza nucleare”, rilanciata da Trump, si intreccia in modo sorprendente con la rappresentazione cinematografica che Kathryn Bigelow e Noah Oppenheim hanno offerto nel film A House of Dynamite, uscito quasi negli stessi giorni su Netflix. In una lunga intervista al Bulletin of the Atomic Scientists, Bigelow ha dichiarato che il suo intento è quello di «creare un dibattito» sul nucleare, proprio perché, se «abbiamo creato queste armi», «abbiamo anche la capacità di risolvere il problema».
Raccontando una crisi nucleare in tempo reale, seppur - come ha rilevato Ludovica Castelli - con alcune imprecisioni o forzature, la pellicola esplora non soltanto l’uso dell’ordigno nucleare, ma soprattutto il complesso sistema di rilevazione, analisi, decisione e risposta che prende forma intorno alla bomba. Che, proprio per tale motivo, non è affatto l’unico pericolo.
Il film si svolge nell’arco di soli diciannove minuti, il tempo in cui viene rilevato un missile balistico intercontinentale diretto verso gli Stati Uniti e il governo deve decidere come reagire. Questa scelta temporale, densa di valore simbolico, evidenzia non solo la brevità del margine d’azione, ma anche la vulnerabilità dell’intero sistema. La storia si sviluppa attraverso tre punti di vista – una base militare in Alaska, la situation room della Casa Bianca e il comando strategico nucleare — intrecciati da un montaggio frenetico che non punta allo spettacolo, bensì a mettere in luce l’illusione della sicurezza assoluta, la complessità delle reti di controllo e la fragilità del fattore umano.
Il rinnovato interesse verso i film a tema nucleare può essere un segnale allarmante. Durante la Guerra fredda, le armi atomiche erano un motivo narrativo ricorrente, come dimostrano On the Beach di Stanley Kramer (1959) e Dr. Strangelove di Stanley Kubrick (1964). Dagli anni Ottanta, tuttavia, il genere ha conosciuto un declino, interrotto solo di recente dal successo di Oppenheimer di Christopher Nolan. Non stupisce quindi che nuovi registi tornino a esplorare i pericoli della guerra atomica. Tuttavia, ciò che rende unico A House of Dynamite è la sua ambientazione. Gli eventi narrati potrebbero (ipoteticamente) accadere in qualsiasi momento. Ed è proprio questo a renderli inquietanti.
Per molti versi, il film mette al centro la fragilità del sistema di difesa missilistico statunitense, e il falso mito della sua invulnerabilità, ricordandoci che viviamo tutti in una «casa imbottita di dinamite» (come recita saggiamente il titolo della pellicola), proprio perché le armi nucleari continuano a esistere all’interno di un equilibrio precario, fatto di tecnologie complesse, catene di comando e inevitabili errori umani.
Inoltre, A House of Dynamite evita di indicare con certezza la provenienza del missile, spostando l’attenzione dalla colpa individuale (o di una collettività) alla struttura stessa del rischio. Bigelow mostra così in maniera adamantina come la minaccia nucleare contemporanea non sia più quella della Guerra fredda, ma sia racchiusa in una rete globale di nuove vulnerabilità – cyber-attacchi, intelligenza artificiale – che rendono il pericolo non solo militare, ma sistemico, diffuso e spesso invisibile fino al momento in cui esplode.
Il parallelo tra l’annuncio di Trump e il film della Bigelow appare inevitabile. Mentre la politica sembra riabbracciare la logica della potenza nucleare, l’arte ne rivela la fragilità strutturale e morale. In A House of Dynamite, il vero pericolo non è infatti l’esplosione, ma la catena di decisioni prese sotto pressione e in condizioni d’incertezza.
La questione, d’altra parte, è tutt’altro che teorica. Un’eventuale ripresa dei test statunitensi potrebbe spingere altre potenze nucleari – come Russia, Cina, India o Pakistan – a seguirne l’esempio, minando decenni di moderazione e incrinando la fragile fiducia costruita attorno al Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty. Un trattato che, seppur mai ratificato dagli Stati Uniti, resta comunque un simbolo essenziale della stabilità globale.
Cinema e politica finiscono per raccontare la stessa verità da angolazioni diverse. Oggi, viviamo (ancora) in una «casa imbottita di dinamite». L’unico modo per disinnescarla è guardare con lucidità alla minaccia nucleare, senza accettarla come inevitabile. Bigelow, nel commentare il finale di A House of Dynamite, spiega di aver evitato l’immagine dell’esplosione proprio per non offrire una catarsi visiva in grado di assolvere l’umanità dalle proprie colpe. Rinunciando al sollievo estetico della sinuosa sagoma del fungo atomico, il film costringe così lo spettatore a confrontarsi direttamente con la responsabilità della scelta e con l’ambiguità del momento che la precede.
In tale prospettiva, risultano ancora attuali le riflessioni che Hans J. Morgenthau espone in uno dei suoi saggi più celebri e controversi, Morte nell’era nucleare, nel quale egli sottolinea come la minaccia della guerra termonucleare trasformi il significato stesso della vita e della morte. In questo scritto, pubblicato nel 1961 sulle colonne di Commentary, il politologo tedesco denuncia soprattutto l’incoscienza dell’uomo moderno, incapace di riconoscere la portata del mutamento introdotto dall’era nucleare, e conclude con un ammonimento che conserva intatta la sua forza: «questo rifiuto di adattare il pensiero e l’azione a condizioni radicalmente nuove» non solo «ha già segnato la rovina di uomini e civiltà in passato», ma è «molto probabile che lo faccia ancora». Un monito che, nell’epoca presente, suona più attuale che mai.
Luca G. Castellin, membro del Comitato direttivo di Polidemos, è professore associato di Storia del pensiero politico presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.