Università Cattolica del Sacro Cuore

Nuove flessibilità nel contratto di lavoro: dai “voucher” al lavoro “agile”

 1 aprile 2016

Prof. avv. Vincenzo Ferrante - Ordinario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica

Nell’ambito della legge Biagi del 2003, nella prospettiva di regolare tutte le forme di lavoro (e non solo quello subordinato), si prevedeva, accanto al lavoro a progetto (ora abrogato dal Jobs Act), un regime speciale per i pensionati e per i disoccupati di lunga durata consentendo loro di prestare una attività puramente occasionale, come nel caso di lavori domestici, di lavori di giardinaggio, pulizia e manutenzione di edifici, di lezioni private, della raccolta della frutta o della vendemmia, stabilendo che da quel momento in poi per questi tipi di attività, che tradizionalmente erano effettuate “in nero”, si dovesse far ricorso ad una sorta di assegno prepagato, da acquistarsi facilmente, anche in tabaccheria.

Lo scopo era quello di evitare il ricorso al pagamento in contanti e, allo stesso tempo, di fare emergere attraverso questo sistema in maniera più chiara la massa di lavoro prestata “informalmente” così da determinare con maggiore precisione quanti fossero effettivamente i lavoratori disoccupati in Italia.

Il sistema era molto semplice: chi aveva bisogno della prestazione di lavoro doveva munirsi precedentemente di assegni (“buoni”, “voucher”) a sufficienza, che avrebbe poi utilizzato in ragione di un assegno per ora, per pagare il lavoratore. Questi, una volta ricevuto il buono poteva andarlo a scambiare presso i concessionari, che gli avrebbero corrisposto però solo una parte del suo valore, trattenendo poi una somma idonea a coprire le assicurazioni INAIL contro gli infortuni sul lavoro e, anche, una piccola quota da destinare all’INPS in vista di una (piccolissima) futura pensione.

La norma rimase per molti anni lettera morta, tanto che via via si introdussero sempre minori restrizioni quanto al ricorso ai lavori a voucher, sino alla formulazione attuale, conseguente alla legge Fornero del 2012, che ha liberalizzato di fatto e ammesso in ogni settore economico il lavoro “a voucher”. Gli unici limiti esistenti sono ora l'ammontare complessivo che un lavoratore può incassare (7.000 euro netti all'anno) e quello relativo al singolo committente (non più di 2.020 euro a lavoratore).

Improvvisamente, dopo queste riforma, nel giro di poco tempo, il sistema del voucher si è diffuso enormemente, tanto che nel 2015 ne sono stati staccati quasi 115 milioni, e quindi ben più del doppio dell'anno precedente, con impressionanti punte di crescita al Sud (+76%) e nelle Isole (+85,2%). Il valore del voucher, è pari a 10 euro nominali, cui corrisponde una retribuzione oraria per il lavoratore di 7,5 euro netti (mentre il resto va in premi assicurativi e pensionistici, come si è detto).

Qualcuno ha calcolato che se invece di pagare con i voucher i lavoratori, questi venissero regolarmente assunti, vi sarebbero 57mila posti di lavoro a tempo pieno in più (e circa il doppio a tempo parziale).

Sono cifre importanti che richiedono quindi un approfondimento da parte dell’INPS, poiché è evidente che solo una minima parte di essi può spiegarsi con attività puramente saltuarie, e vi è il rischio che il loro utilizzo nasconda di fatto un ricorso assai ampio al lavoro irregolare.

In realtà, la diffusione dei voucher andrebbe salutata come un risultato positivo, almeno fin tanto che si ha la certezza che essi vengano utilizzati correttamente e cioè rispettando la proporzione di un buono per ogni ora di lavoro, poiché, ove così fosse, si tratterebbe in fondo solo di un incremento dell’occupazione, che registrerebbe un saldo positivo. A far dubitare della corretta utilizzazione dei buoni, però, è proprio il rispetto di una regola così rigida, poiché in Italia, in assenza di una legge sul salario minimo legale orario (presente oramai in tutti i paesi dell’Unione europea), appare inverosimile che tutti i lavori siano effettivamente pagati nella misura di 7,5 euro netti l’ora in tutto il territorio nazionale.

L’ipotesi che si fa, quindi, è che il datore paghi sì il lavoratore in voucher, ma consegnandone al termine della giornata in numero inferiore rispetto alle ore effettivamente lavorate.

Il ministero quindi sta ipotizzando in questi giorni di introdurre un obbligo di legge che obblighi il datore a comunicare preventivamente all’INPS, mediante e-mail o SMS, il nominativo del lavoratore e l’ora di inizio e di fine della prestazione, così da effettuare una vigilanza più attenta su questo tipo di lavoro.

Obblighi di questo tipo, in verità, erano presenti in passato, ma sono stati abrogati negli ultimi dieci anni perché li si considerava come un inutile strumento di controllo burocratico: se solo si pensa però agli SMS che ognuno di noi manda in una giornata (sono milioni in tutta Italia), ci si rende conto che i sistemi attuali semplificano oramai queste comunicazioni, che possono quindi essere effettuate con grande semplicità, consentendo un indispensabile controllo su queste centinaia di miglia di lavoratori.

La verità è che il boom dei voucher non si spiega solo con l’evasione (che in Italia non manca mai), ma anche con il fatto che il “Jobs Act”, con il d. lgs. 81 del 15 giugno 2015, ha abrogato del tutto (seppure in maniera poco chiara) il “lavoro a progetto”, di modo che le imprese che erano solite ricorrere a questa tipologia di contratto si sono ora spostate sul lavoro a voucher.

La norma abrogativa del lavoro a progetto è entrata in vigore il 1° gennaio 2016, ma prevede una proroga per i contratti precedentemente in essere; ed è a tutta evidenza in vista di questa nuova scadenza che sono state messe in campo molte iniziative parlamentari per garantire a questi rapporti di lavoro, che genuinamente vengono posti in essere da tanti professionisti, di poter contare ancora su una forma che non penalizzi le imprese sul piano della disciplina del contratto (dal punto di vista pensionistico e assicurativo, infatti, la parificazione è già quasi completa oramai da alcuni anni).

Dopo il deludente disegno di legge governativo, che si è analizzato qualche tempo fa (XXXX) è arrivato da poco al Senato in Commissione lavoro, un disegno di legge (S2229) intitolato “Adattamento negoziale delle modalità di lavoro agile nella quarta rivoluzione industriale”, che sembra più attento alle esigenze regolative del rapporto rispetto ai contenuti dell’iniziativa ministeriale.

Il disegno di legge, che reca come primo firmatario l’ex Ministro del Lavoro Sacconi, mira in sostanza a definire una disciplina autonoma per quanti effettuino una attività lavorativa “in funzione di progetti e obiettivi o a risultato, rese senza vincoli di orario o di luogo rispetto alle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa” (art. 1, co. 1 DDL 2229).

Si tratta soprattutto di lavori ad elevata specializzazione (“inseriti in distretti industriali e della conoscenza, cluster, poli tecnologici, incubatori certificati di imprese, start up innovative, reti di imprese o imprese qualificate”) ovvero delle prestazioni di coloro che “siano impegnati in modo continuativo in lavori di ricerca, progettazione e sviluppo per aziende” (lett. c e d art. 1 cit.), in relazione ai quali si fa fatica ad ipotizzare l’applicazione indistinta di tutte le norme protettive della disciplina del lavoro subordinato, come già avviene per i dirigenti.

In questa prospettiva il DDL propone una soluzione è al tempo stesso innovativa, ma rispettosa della tradizione perché fa salve in questi casi «la vigente disciplina in materia di assunzione, sospensione ed estinzione dei rapporti di lavoro, nonché la disciplina relativa alle sanzioni disciplinari, ai divieti di discriminazione e ai profili previdenziali e assicurativi», ma rinvia per tutto il resto “agli accordi individuali o collettivi di livello aziendale o territoriale nel rispetto delle disposizioni contenute nella presente legge”.

Peraltro, a garanzia che a questa forma accedano solo lavoratori con professionalità elevate, si prevede che restino “esclusi dal campo di applicazione della presente legge [cioè dal DDL] i lavoratori assunti con contratti di durata inferiore a un anno e, in ogni caso, i lavoratori che ricevano un corrispettivo lordo inferiore a 30.000 euro parametrato su base annua».

Il progetto “Sacconi”, per questo aspetti, sembra rispondere ad esigenze concrete e bene si farebbe a prenderlo in attenta considerazione nel momento in cui si dovesse andare speditamente al voto sull’argomento.