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L’Italia adotta il part time “in uscita”, ma manca qualcosa…
Il part time in uscita è una misura molto diffusa in altri Paesi, che l’Italia in passato ha spesso rifiutato di attuare. La situazione è, però, oramai radicalmente mutata: la riforma Fornero, elevando l’età di accesso alla pensione di vecchiaia, ha reso il part time in uscita una soluzione concretamente praticabile per quanti avvertono difficoltà a proseguire il lavoro con i consueti ritmi sino al momento della pensione. Ma nel provvedimento manca una disposizione relativa all’assunzione agevolata di un giovane per colmare la quota di orario di lavoro resa disponibile dal passaggio al part time: una norma “staffetta” che, soprattutto in Germania, ha riscosso grande successo, e che consentirebbe il passaggio diretto delle competenze fra il lavoratore più anziano e il neo-assunto, così da incrementare la produttività aziendale.
Con un decreto, firmato dai ministri del Lavoro e dell’Economia lo scorso 13 aprile, viene disciplinata, in conformità all’art. 1, comma 284, della legge di Stabilità 2016, la disciplina del part time “in uscita”. Il provvedimento, trasmesso alla Corte dei conti, diventerà operativo con la registrazione e con la successiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Si tratta di una misura sperimentale, valevole solo per i dipendenti del settore privato e per il triennio 2016-2018, diretta a promuovere l’“invecchiamento attivo”, ovvero l’uscita graduale dall’attività lavorativa.
I lavoratori, con contratto a tempo indeterminato e orario pieno, con almeno venti anni di contributi, che maturano il requisito anagrafico entro il 31 dicembre 2018, possono concordare col datore di lavoro il passaggio al part-time, per tutta la durata che li separa dalla pensione di vecchiaia, definendo una riduzione dell’orario a scelta, fra un minimo del 40 ed un massimo del 60%.
A fronte di tanto, in aggiunta alla normale retribuzione dovuta per le prestazioni rese, i lavoratori riceveranno (I) una somma, libera da contribuzione e da imposizione fiscale, pari alla quota di contribuzione previdenziale a carico del datore di lavoro, che altrimenti sarebbe stata corrisposta all’INPS per la parte relativa all’orario non lavorato; (II) una contribuzione figurativa a carico dell’INPS commisurata alla prestazione non effettuata, nei limiti tuttavia degli stanziamenti annui tal fine previsti (60 milioni di euro per il 2016 e per il 2018, oltre 120 milioni per il 2017).
Già in passato alcune misure di legge avevano previsto norme per il part time in uscita, stabilendo però il cumulo della pensione (pagata in forma anticipata) e della retribuzione (vedi, ad esempio, D.M. Funzione Pubblica 29.7.1997, n. 331). Si trattava di misure che hanno avuto effetto limitato a ragione soprattutto del fatto che l’accesso al pensionamento avveniva spesso in un momento di piena efficienza fisica (con il sistema delle “quote”, il pensionamento poteva raggiungersi a 58 anni solo sei anni fa) e che la possibilità di cumulare incondizionatamente pensione e reddito rendeva assai più agevole per i lavoratori, soprattutto con mansioni direttive, la scelta di pensionarsi e di tornare a lavorare dopo un brevissimo intervallo (bastava un mese), anche riprendendo la stessa posizione che avevano occupato sino a poco prima.
La situazione è però oramai radicalmente mutata da alcuni anni: la riforma Fornero del dicembre 2011, infatti, per un verso, ha definitivamente eliminato per gli anni a partire dal 2012 il sistema retributivo che faceva aggio sulle ultime retribuzioni corrisposte e ha generalizzato per tutti il sistema contributivo, così da evitare che una retribuzione ridotta negli ultimi anni possa poi influire negativamente sul calcolo della pensione.
In secondo luogo, la stessa riforma ha oramai fortemente elevato l’età di accesso alla pensione di vecchiaia (oramai pari per il settore privato a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e a 65 anni e 7 mesi per le donne) di modo che l’accesso al part time in uscita comincia a rappresentare una soluzione concretamente praticabile per quanti avvertono difficoltà a proseguire il lavoro con i consueti ritmi sino al momento di effettivo accesso alla pensione.
Si tratta comunque di una misura assai diffusa in altri Paesi e che l’Italia aveva spesso rifiutato di attuare come ad es. nella Finanziaria del 2008 quando, in luogo del part time in uscita, si arrivò a prevedere che i dipendenti pubblici potessero essere dispensati dal servizio nei cinque anni precedenti la maturazione della contribuzione massima, ottenendo in questo modo un trattamento economico (in assenza di prestazione) pari al 50% della retribuzione altrimenti spettante e potendo cumulare tali somme con il reddito percepito in conseguenza di altra attività.
Manca però nel provvedimento ogni disposizione relativa alla assunzione agevolata di un giovane, a colmare la quota di orario di lavoro resa disponibile dal passaggio al part time: si tratta di una misura “staffetta” che, soprattutto in Germania, ha riscosso grande successo, consentendo il passaggio delle competenze in maniera diretta fra il lavoratore più anziano e il neo-assunto, così da incrementare la produttività aziendale.
Per avere accesso al beneficio è necessaria la stipula di un apposito contratto di lavoro fra dipendente e imprenditore (diretto ovviamente a estinguere il precedente rapporto e a costituirne uno nuovo a termine); il datore provvederà poi a trasmettere il contratto alla DTL competente per territorio cui spetta, nei cinque giorni successivi, rilasciare un provvedimento di autorizzazione all’accesso al beneficio. Non è chiaro in cosa debba consistere il controllo della DTL (che comunque si ha per effettuato decorso il brevissimo termine di cui sopra).
Precedentemente alla stipula del contratto, in ogni caso, il lavoratore dovrà munirsi di idonea certificazione INPS in ordine alla sussistenza di una anzianità contributiva minima (20 anni) e alla certificazione della data del pensionamento di vecchiaia entro il termine del 31.12.2018.
La domanda va infine inoltrata all’INPS che, nei cinque giorni successivi, valutato l’andamento complessivo dell’operazione (e quindi l’utilizzo degli importi stanziati a finanziamento della contribuzione figurativa), provvede ad accettarla o a respingerla.
Il decreto non specifica se al contratto da stipulare fra datore e lavoratore debbano applicarsi le regole da poco riscritte dal D.Lgs. n. 81 del 2015 in via generale quanto al part time (artt. 4 ss.) ed in particolare l’art. 5, che impone la precisa individuazione della collocazione oraria della prestazione. A riguardo qualche indicazione in più non sarebbe stata inutile nel decreto, anche se si può affermare che, data l’esclusiva finalità del contratto di consentire una riduzione della durata della prestazione di lavoro, non sembrano sussistere in questi casi le ragioni che secondo la giurisprudenza costituzionale (v. Corte Cost. n. 210 del 1992) impongono rigidità nella determinazione degli orari di lavoro.
Vincenzo Ferrante – Professore ordinario di diritto del lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano