- Milano
- Centro di ricerca Europeo di Diritto del Lavoro e Relazioni Industriali (CEDRI)
- Notizie
- Il disegno di legge delega sull’emarginazione sociale e il contrasto alla povertà
Il disegno di legge delega sull’emarginazione sociale e il contrasto alla povertà
Prof. avv. Vincenzo Ferrante - Ordinario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica
La crescita della povertà negli ultimissimi anni ha toccato cifre record in Italia, tanto che si calcola che sono un milione e 470 mila le famiglie in condizione di povertà assoluta (5,7% di quelle residenti), per un totale di 4 milioni 102 mila persone (6,8% della popolazione residente), con una distribuzione territoriale che non risparmia nessuna regione (seppure i dati al Sud sono doppi che al Nord: dati ISTAT 2015).
Del resto, a sottolineare il generale deterioramento delle condizioni di vita della popolazione italiana, il 2015 si è chiuso con un dato statistico senza precedenti (a parte gli anni della I e della II guerra mondiale), poiché il tasso di mortalità è cresciuto di circa l’11% rispetto all’anno precedente.
A fronte di queste tendenze, che si sono delineate in anni neanche troppo lontani, la Repubblica italiana manca ancora di un sistema “universale” di protezione sociale, poiché questa è stata sempre riferita a categorie specifiche (i ciechi, i disabili, i disoccupati, i lavoratori in mobilità, i superstiti), di modo che chi venga a trovarsi in situazione di disagio, anche grave, ma non rientri in alcuna di queste categorie, rischia di non ricevere alcuna forma di aiuto dallo Stato.
In passato, si è provato a creare un sistema che prendesse a riferimento la situazione di povertà in quanto tale, attraverso la c.d. legge quadro sull’assistenza (n. 388 del 2000), che delegava ai comuni le competenze amministrative relative alla materia, senza però garantire mezzi necessari a finanziare le eventuali misure di sostegno. Sulla base di questa legge, si è comunque sviluppato un meccanismo di valutazione della situazione reddituale delle famiglie (al fine di meglio selezionare quanti fossero in condizioni di effettivo bisogno, rispetto a quanti invece erano comunque occupati, seppure in nero o in attività autonome parzialmente sommerse), attraverso il c.d. indice ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), oramai necessario per avere accesso alle varie provvidenze previste da enti pubblici o alle tariffe agevolate offerta dalle società di servizi.
A completamento della riforma del diritto del lavoro, il Governo ha ora approvato un disegno di legge delega che si propone «l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà»: si tratterebbe di passare ad un sistema nuovo, improntato ai «principi dell’universalismo selettivo» (art. 1 d.d.l.), che riorganizzi i benefici, erogati in precedenza, sulla base delle condizioni economiche dei beneficiari, valutate proprio alla luce dell’ISEE, così da utilizzare i risparmi che dovrebbero derivare da questa revisione a finanziamento della nuova misura (v. l’art. 1, comma 1, lett. b e il comma 3 del d.d.l.).
Come la stampa ha subito messo in evidenza, si tratta, sostanzialmente, di un vigoroso taglio alle pensioni di reversibilità (ma solo a quelle future, ha subito precisato il Ministro) che attualmente rappresentano una delle voci di maggior peso nel bilancio INPS.
L’istituto della pensione di reversibilità (o ai superstiti) risponde all’esigenza di assicurare un sostegno economico a quanti vivevano a carico del lavoratore (o del pensionato) defunto, come espressione di un principio di solidarietà sociale, posto che la misura della pensione attribuita al beneficiario dopo la morte del congiunto viene determinata in relazione alle condizioni di bisogno del percettore (a mente della riforma del 1995, che già aveva razionalizzato il sistema), senza però tener conto in alcun modo della speranza di vita del beneficiario, e quindi al di fuori di ogni logica attuariale.
Differente, in questo caso, appare la prestazione riconosciuta ai superstiti dell’assicurato INAIL, posto che in quei casi la logica è da ricercarsi, invece, tutta nell’ambito dello stesso rapporto previdenziale, secondo logiche non diverse da quelle proprie del contratto di assicurazione privata, dato che dal realizzarsi dell’evento assicurato viene a sorgere un diritto necessariamente in capo ai superstiti, secondo lo schema del contratto a favore di terzi.
Tuttavia, anche nella prospettiva del trattamento di reversibilità INPS/INPDAP non si deve dimenticare che i contributi che sono stati versati sono stati sottratti al menage familiare e, in quanto prodotti in costanza di matrimonio, dovrebbero venire a cadere, in assenza di prelievo contributivo, in comunione dei beni, ove questo sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi. Non a caso, in un lontano passato, in caso di morte dell’assicurato, si riconosceva il diritto del coniuge superstite a vedersi restituita una parte dei contributi, per l’ipotesi in cui fosse mancata l’anzianità minima contributiva necessaria alla maturazione del diritto alla pensione di reversibilità vera e propria.
Non si sa ancora in che termini potrà essere esercitata la delega al Governo che dovesse derivare dall’approvazione del disegno di legge ora presentato, tuttavia si deve notare come, nell’ambito di un sistema che ammette un libero riparto dei ruoli e delle responsabilità all’interno della coppia, potrebbe essere considerato irrazionale da parte della Corte costituzionale un provvedimento di legge che attribuisse gli accantonamenti contributivi operati da uno solo dei coniugi alla proprietà esclusiva di questo, senza considerare così l’apporto che l’altro ha fornito alla produzione del reddito, nei termini di un contributo di lavoro familiare o comunque in esito all’obbligo di assistenza morale e materiale.
In secondo luogo, non si deve dimenticare che il riconoscimento del diritto di reversibilità al coniuge viene ad affermarsi sicuramente nella prospettiva di una parità fra i coniugi. Si potrebbe, anzi, affermare che la reversibilità assicurata al superstite costituisca proiezione del riconoscimento dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (secondo la bella formula adottata dall’art. 29 Cost.), consentendo ai coniugi di pianificare la divisione dei ruoli all’interno della coppia, e quindi riconoscendo indirettamente al lavoro familiare e di cura lo stesso rilievo del lavoro salariato.
Infine, non si deve dimenticare come la misura che il Governo si propone ora di introdurre viene ad essere giustificata come strumento di completamento delle politiche (c.d. di attivazione) dirette ad incoraggiare la ricerca di una attività lavorativa, di modo che appare a chiunque evidente come la riduzione delle pensioni di reversibilità non possa essere presentata nei termini di una sorta di semplice riorganizzazione del sistema, essendo queste misure dirette a sostenere economicamente soggetti per lo più oramai inabili al lavoro a ragione della loro età avanzata.
In conclusione, senza nulla togliere all’urgenza dell’intervento, il disegno di legge sembra poco attento alle esigenze dei diritti costituzionalmente riconosciuti ad ogni famiglia e a chi si trova nel difficile situazione della vedovanza (per non parlare degli orfani), di modo che la creazione di una misura generale di contrasto alla povertà rischia di generare un contenzioso costituzionale non da poco, ove non si mettano a disposizione fondi aggiuntivi rispetto a quelli attualmente impiegati nel finanziamento della reversibilità (mentre rimane ovviamente salva la possibilità di una riduzione delle aliquote di reversibilità a beneficio dei superstiti e la lotta contro le dichiarazioni mendaci in ordine alla condizione patrimoniale dei beneficiari).